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(E nella mappa) mosaico del monogramma di Cristo o Chi Rho |
la Basilica Paleocristiana di Salemi
"...Ricordati, Signore, del tuo servo Sapricio..."
In
Sicilia la documentazione relativa al mosaico paleocristiano è abbastanza
carente sia per la mancanza di scavi organizzati sia per i danni provocati dai
lavori agricoli. A causa di questa situazione i pochi esempi giunti a noi
rivestono un’importanza eccezionale e tra questi spicca quello della basilica
di S. Miceli trovata a Salemi.
Nella contrada denominata San Miceli, per il nome di questa basilica, (a valle
della Città e guardando verso nord), si trovano i resti della basilica
paleocristiana (dimensioni stimabili 14,50 x 14,75 m.)
risalente
al III – IV sec. d. C. e "dedicata" all'arcangelo San Michele. Il
culto a S. Michele Arcangelo è di origine orientale, l'imperatore Costantino I
a partire dal 313 li tributò una particolare devozione nei suoi territori (tra
cui l'Africa settentrionale e la Sicilia) e alla fine del V il culto si diffuse
rapidamente in tutta l'Europa.
Nel 1893,
Antonio Salinas, su segnalazione di Giovanni Baviera e Antonino Lo Presti,
appassionati di archeologia, scoprì in un terreno di proprietà di Gaspare
Spedale, la presenza di antichi mosaici. Iniziati gli scavi, vennero rinvenute
le fondazioni di una basilica monoabsidata a pianta longitudinale rivolta da
levante a ponente come tutti gli edifici sacri dei cristiani. La basilica di
modeste dimensioni, aveva una pianta rettangolare con due file di cinque
colonne che dovevano dividere originariamente la superficie in tre navate. Il
ritrovamento di tracce murarie davanti all’ingresso, realizzate con la tecnica
dell’opus incertum, lasciano presupporre che l’edificio era completato
da un nartece, tipico delle basiliche paleocristiane romane e greche.
Altri
ritrovamenti furono i resti bruciati (travi, coppi, canali) rinvenuti nel manto
terroso che ricopriva il pavimento. Di conseguenza si presume che la
distruzione di questo edificio sia avvenuta a causa di un incendio, come spesso
accadeva durante le persecuzioni verso i cristiani.
All’interno
della basilica sono stati ritrovati tre strati di pavimento a mosaico di
diversa età e di differente valore stilistico. A circa 35 cm di profondità fu
rinvenuto un mosaico quasi completamente distrutto sul quale era ancora
possibile leggere, a tessere bluastre su fondo rosso, l’iscrizione latina: “…
ai tempi del pontefice, vescovo e padre…”. Ancora più in basso un secondo
pavimento a mosaico lavorato a scomparti romboidali con tessere bluastre su
fondo bianco. Qui si potevano ancora leggere, stavolta a caratteri greci,
tre diverse iscrizioni interpretate dallo stesso Salinas. Sotto questo
pavimento c’era un terzo mosaico composto da tessere di rozza fattura e con
tracce di iscrizioni che non fu possibile decifrare sia per il cattivo stato
dell’insieme, sia per gli inevitabili ulteriori danneggiamenti, causati durante
le operazioni di recupero degli strati soprastanti.
Detti mosaici
risultano particolarmente significativi per il coesistere nella loro
decorazione della tradizione geometrica classica e degli influssi di quella
particolare fioritura che l’arte del mosaico aveva avuto nell’Africa
settentrionale.
All’interno e
lungo il perimetro esterno della basilica furono esplorate 58 tombe, che
ospitavano i resti di componenti di famiglie facoltose e di semplici fedeli,
ricchi di corredi funerari e di suppellettili (anticamente era abitudine seppellire
i cristiani accanto agli edifici sacri).
Lo scavo ha messo in luce tre fasi contraddistinte, dalla più
recente alla più antica, con le lettere A, B e C.
Fase A (la più
recente): i resti relativi alla
fase più recente della chiesa sono molto scarsi, il
pavimento superiore venne gravemente danneggiato all’atto della scoperta e
anche successivamente. L’elemento più interessante è costituito da un
frammento musivo trovato nella metà orientale della navata centrale recante
l’iscrizione latina “...MPORIBUS ...NTIFICIS PATRIS EPISC... ...OMINUS DO...
...NORIS F... ...IOLI CE...”. L’epitaffio contiene forse l’allusione a un
[p]ontificis patris episc[opi]. Sulla base delle caratteristiche
architettoniche dell’edificio il Pace attribuì questa fase al VI sec. d.C.
Questo
pavimento superiore, al momento della scoperta, giaceva sotto uno strato di
materiale di colmata, con frammenti di coppi e tegole della tettoia, e tracce
di terra bruciata con carboni, resti forse delle travi che sostenevano la
tettoia, e cioè, con buona probabilità, il tetto a spioventi che copriva la
basilica (le basiliche paleocristiane alla stessa maniera di alcuni templi
greci erano costruite con il tetto in legno).
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(*) mosaico della fase B |
Fase B: Questo secondo momento della basilica è
caratterizzato da un altro pavimento musivo che è stato scoperto sotto il
mosaico con l’iscrizione latina: esso è caratterizzato nella sua metà
occidentale da uno schema geometrico di ottagoni e quadrati contenenti motivi
floreali stilizzati e nella sua metà orientale da quadrilateri irregolari
intervallati da losanghe; questa parte del pavimento ospita inoltre cinque
iscrizioni musive di cui quattro greche e una latina che recano i nomi di
probabili benefattori della chiesa: Kobouldeos e Maxima, Zosimos, Saprikios,
Makarios e Dionisius (*).
Sulla prima epigrafe si legge “Kobouldeos e
Maxima sciolsero il voto per la salvezza dei loro figli”. Particolarmente
interessante è il nome Kobouldeos molto diffuso nelle comunità cristiane
dell’Africa settentrionale e significa “Quod vult Deus”. Questo testimonia che
compagini africane in epoca tardo-romana erano ancora presenti nella parte
occidentale dell’isola e che contribuirono alla diffusione del cristianesimo in
queste zone, è da ricordare che l'antica Diocesi di Lylibeo sino all'VIII aveva
anche giurisdizione su una parte della Chiesa dell'odierna Tunisia.
La seconda iscrizione dice “Il presbitero
Macario per la salvezza di Kobouldeos”. La tipologia dell’iscrizione
sembrerebbe essere funeraria ma a causa della perdita dei dati stratigrafici
non si può affermare ciò con certezza. Questo frammento di mosaico è comunque
riferibile ad un restauro; quest’ultimo potrebbe essere riferibile o alla tomba
di Kobouldeos costruita dal presbitero Macario oppure ad un restauro del
pavimento voluto da Macario per onorare la memoria del fondatore della basilica
(Kobouldeos?).
Nella terza iscrizione si legge “Ricordati,
Signore, del tuo servo Sapricio”. Il nome presente nell’epitaffio viene da
greco “sapròs” “putrido” ed è un nome abbastanza diffuso tra i primi cristiani
che per umiltà adoperavano nomi dispregiativi.
L’unica iscrizione funeraria certa è quella di
Dionisius che dice “ Il presbitero Dionisio visse in pace 55 anni”. Questa seconda fase è ascrivibile al V sec. d.C.
Poiché
in età paleocristiana in Sicilia si parlava sia in latino che in greco, la
compresenza delle due lingue nella basilica di Salemi non può stupirci.
Tuttavia, l’uso del latino divenne più frequente sotto il pontificato di
Gregorio Magno (590-640); quest’argomento linguistico ha indotto gli studiosi
ad attribuire il pavimento della fase più recente (A) al VI secolo, e il
precedente (B) - dove prevalgono le iscrizioni in greco - al V secolo.
FASE C (la più antica):
la prima fondazione della chiesa, cui risalgono le poche tracce di un pavimento
musivo “con tasselli mal connessi” sottostante il secondo pavimento, potrebbe
ipoteticamente risalire anche alla metà del IV secolo, o tra la fine del IV e
gli inizi del V.
La
definitiva distruzione con incendio della chiesa va datata nel corso o appena
dopo la metà del VII secolo.
Sia l’associazione di mosaici e di iscrizioni funerarie sia i
nomi presenti nelle epigrafi sono di origine nord-africana. La qualità meno
elevata del pavimento della basilica di Salemi tradisce tuttavia una fattura
locale che si servì di modelli africani circolanti a quell’epoca nel
Mediterraneo occidentale.
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©
Chiesa Madre Salemi
Lavoro di
Alessandro Palermo
Fonti: Giuseppe
Stabile (Arkeomania.com)
Foto: Gruppo archeologico
Xaipe